11:05 pm

Sbobinando (32)

Faccio una foto: giovane donna con bambini, due tre quattro cinque sei sette otto, tutti pulitissimi; ne arrivano altri, scatto ancora. Altro scatto, gruppo di famiglia in un esterno, baracca graziosa in un posto qualunque del barrio, ai margini di un acciottolato faticoso da percorrere.

Altra baracca, una giovane donna mi dice qualcosa: le sorrido, “no he comprendido”, sorride anche lei. In braccio ha una bambina biondissima, i capelli a boccoli le cadono sulle spalle. “Qui c’è passato un bastardo”, mi dice Fiammetta: il dono della sintesi è uno dei pregi della gioventù.

Le indico un giocattolo fatto con una bottiglia di latte a cui sono state messe le ruote. Le si illumina lo sguardo. Passiamo oltre. Uno sguardo pieno di luce: un altro pregio della gioventù. Eccone un altro: gli occhi incredibilmente verdi di una giovane mamma, due bambini e un terzo già a buon punto.

Sto per dire che non vedo uomini quando spunta un cappello bianco con le tese ricurve: “¿Dónde están los hombres?”. “Están trabajando”. Forse è vero. Speriamo sia vero. Lo so, sono un po’ prevenuto.

Faccio capolino in una baracca. Soggettiva sulla miseria. Interno della camera da letto: a destra un lettino con le lenzuola arrotolate e dimenticate, a sinistra un letto a castello, sul letto in alto c’è di tutto; la cucina è un disastro.

Suor Serafina e Orietta entrano a portare qualche medicina. Spunta un uomo di mezza età, sembra infilato a forza nella sua sedia a rotelle. Serafina gli misura la pressione, Benny e Fiammetta regalano fermacapelli alle bambine, una ha un’incredibile testa di capelli e si presenta quando elastici e fermagli sono finiti, quasi si mette a piangere, poi spunta un cerchietto e anche i suoi occhi si riempiono di luce.

Mi cade l’occhio sugli enormi piedi dell’uomo infilato nella sedia a rotelle. Serafina finisce di misurargli la pressione. Una delle bambine gli fa una carezza. Martina una volta mi disse: “Papà, tu non sarai mai vecchio”. È bello avere una figlia.

10:52 pm

Sbobinando (31)

Ripassiamo davanti a Betania, dove le comunità di base stanno vivendo un pomeriggio di preghiera: è un bel gruppo, rivedo uomini e donne già notati per intensità di partecipazione all’inaugurazione della nuova cappella, è bella e intensa anche la preghiera.

Fuori dalla chiesa rivedo una vecchia che ho fotografato al mattino, mentre preparava il banchetto sul quale espone le sue piccole mercanzìe: un thermos di non so cosa, pochi sacchetti di caramelle, un paio di confezioni di biscotti, qualche banana in condizioni così così.

Impensabile dalle nostre parti, ma una volta di più mi chiedo se questa miseria non sia più umana della nostra civiltà: che ne sarebbe di questa povera vecchia se non potesse provare a vendere qualcosa?

Ripenso a lei più avanti, quando il giro di visite di suor Serafina ci porta dal ragazzo con la testa enorme.

Ho parlato di lui nel primo intervento fatto sul blog di don Paolo, il mio scritto di presentazione messo in rete direttamente dallo studio della missione; ne ho riparlato nell’articolo scritto per MissioGenova, la rivista curata da don Francesco.

L’ho visto entrando nella casa dipinta di rosso, superando la porta marroncina con la parte bassa rinforzata da una lamiera verde marcio: la casa rossa chiude il vicolo d’accesso, con il viottolo che si sdoppia sui due lati; insomma, ci si va a sbattere contro.

Il ragazzo è infermo dalla nascita: ammesso che si potesse fare qualcosa, l’assoluta povertà dei genitori (ma conoscerò solo la madre) ha cancellato ogni speranza alla radice.

Così il collo e la testa sono le uniche parti del corpo che si siano sviluppate normalmente, sembrano un pezzo unico sparato dal tronco verso l’alto; le braccia sono sottili e lunghissime, ripiegano davanti al ventre e finiscono in mani grandi, appoggiate sui piedi senza forma, premuti l’uno contro l’altro: nella mano destra tiene qualcosa, forse un giocattolo, la sinistra è chiusa a pugno.

È seduto su una sedie di plastica arancione, impilata su una sedia dello stesso tipo, azzurra; accanto a lui, sulla sedia rosa accanto, una bambina con due grandi fiocchi rosa legati ai capelli; di fronte, la sedia a rotelle con imbottitura nera su telaio rosso fiammante.

Lo sguardo è intenso, attento; sulla bocca grande e carnosa un accenno di baffo, sul viso, un accenno di sorriso: non so se è vero o se lo vedo solo io, forse perché penso che da noi sarebbe sepolto in un istituto, proprio come la vecchietta sarebbe sepolta, dimenticata?, in una casa di riposo.

9:22 pm

Sbobinando (30)

Dalle lezioni di informatica alle lezioni di vita: la scuola è il barrio, le aule sono gli squarci che ci si aprono davanti.

Camera stretta su un paio di scarpe appese, ormai sapete di che cosa si tratti: gioventù buttata via; ecco il contrappunto: bambini che fanno il bagnetto nella vasca davanti all’ingresso della missione, ne abbiamo visti e ne vedremo a ogni passaggio.

Sono le 4 del pomeriggio e fa un caldo incredibile; seguiamo suor Serafina e Orietta, con Fiammetta e Benedetta catechizzate da don Francesco: si va a portare aiuti e medicine a poveri e malati del barrio.

La strada è una pietraia che fa male ai piedi. Si arrampica una piccola autobotte di acqua potabile. Un grande portone di ferro spalanca la vista su una distesa di batterie esauste, non ne ho mai viste così tante. Chiedo all’operaio che cosa ne facciano: “Le ripariamo”, mi risponde con un sorriso largo. Non sapevo si potesse.

Suor Serafina saluta una vecchia che stava dormendo davanti casa: le fa festa e la invita a entrare, ne escono quasi subito in quattro, c’è anche una ragazza dal passo malfermo, sostenuta dal padre.

La ragazza non credo abbia 18 anni, ha un colorito terribile, un olivastro tendente al grigio; faccia da india, piccolina, indossa una canottiera azzurra, entrambe le spalline sottili passano su grandi cerotti imbottiti: è lì che le attaccano le macchine per la dialisi.

Ogni passo le costa fatica, ogni gesto la costringe a una sofferenza vanamente dissimulata dal sorriso. Eh già, sorride. È contenta della visita. Sono contenti anche i suoi genitori: suor Serafina consegna un po’ di medicine, Fiammetta fa una carezza al fratellino e prova a dargli un cagnolino di peluche, ma lui non lo vuole.

Mi guardo intorno: la casa è tristissima, il mazzo di rose di plastica che vorrebbe ingentilire il tavolo produce un contrasto che sa di desolazione totale.

Finiamo di consegnare le medicine e andiamo via.

10:46 pm

Sbobinando (29)

(Scusate l’assenza, causata da insopportabili quanto ineludibili necessità di lavoro: incombe il Salone Nautico).

Riprendo a sbobinare dalle lezioni di computer, che si tengono in un locale di fronte alla scuola.

La stanza è piccola (quattro per sei, più o meno), un grande ventilatore sul soffitto aiuta la decina di aspiranti informatici e l’insegnante, che come spesso accade quando si tratta di computer è assai più giovane dei suoi allievi.

Angelo è un magrolino dall’aria energica, sul metro e sessantacinque, poco più che ventenne, un filo di pizzetto, l’espressione molto sveglia, ha una bella maglietta rossa e un berretto con visiera; i computer lavorano in ambiente Linux, politica di don Paolo, che è orgoglioso di aver abbandonato Windows per risparmiare sui costi e guadagnare in praticità.

Il corso di informatica fa parte dell’insegnamento che si dà ai ragazzi durante l’anno; agli adulti si offre la possibilità di fare un corso più breve, un paio di mesi: bastano, dice Angelo, per consentire a chiunque si trovasse davanti a un computer di sapere quel che deve fare.

Mi viene in mente don Milani e la sua pedagogia così ancorata ai bisogni elementari: cultura è prima di tutto (per esempio) sapersela cavare in un ufficio postale. Dice Angelo: “I ragazzi vengono qui per giocare, ma le persone da 30 anni in su vengono perché sanno che nel 21mo secolo non si può fare a meno dell’informatica”.

E poi c’è un terzo gruppo, le donne che “vengono perché non costa niente e possono dare un esempio ai figli, al marito”.

Dare l’esempio: non sembra anche a voi che il concetto di esempio contenga l’idea della speranza?

10:27 pm

Sbobinando (28)

Dopopranzo alla missione: due seminaristi stanno dipingendo la scritta Ambulancia, non perché ci sia da riservare un posto (chi glielo porta via, a don Lorenzo?) ma perché così farà la sua figura; scaletta, scatoletta e pennellino, vedrai che bello.

Io sto guardando il lustrascarpe Pepe: ha la faccia triangolare, un po’ palestinese, la fronte spaziosa e il naso che punta dritto verso le labbra; la bocca piccola contiene parte di una dentatura sgangherata, le orecchie sono grandi e un po’ a sventola; ha il modo di parlare delle persone semplici, con l’espressione un po’ felice e un po’ incerta, la lingua che batte sui denti che mancano.

Sui jeans indossa una felpa bluette con lo stemma di una chiesa, sulla schiena leggo: Hacia El Tercer Plan Pastoral, verso il terzo piano pastorale; la scritta è rotonda e al centro c’è un Gesù Cristo sorridente.

Il lustrascarpe Pepe sa di inestricabili nodi interiori; magrissimo, di media statura, i capelli sono corti e più scuri dei baffi brizzolati, ha una barba non fatta da due o tre giorni; le braccia sono sottili e pelose, le dita magre si muovono con grande abilità: con la mano sinistra prende il lucido nero dalla scatoletta che sringe fra le ginocchia, e con le dita spalma il lucido sul mocassino nero in cui ha infilato la mano destra.

Pepe, da quanti anni fa il lustrascarpe? “Ho cominciato a pulire scarpe da piccolo e non ho mai fatto un altro lavoro: avevo 6 anni, ora ne ho 41. Mi sarebbe piaciuto fare qualcos’altro, studiare per diventare avvocato, ma mi hanno mandato a pulire scarpe e questa è l’unica cosa che ho fatto in vita mia”.

7:44 pm

Sbobinando (27)

Il dubbio è di quelli più atroci: Cristoforo Colombo l’Ammiraglio, oppure Cristoforo Colombo l’Emigrante, il primo italiano della storia? E poi: il primo? E Marco Polo da Venezia? E Andalò di Savignone, che fece dopo di lui la stessa strada?

Niente paura, è che ho scoperto di potermi concedere un giorno di festa. Meglio: ho scoperto che c’è un festivo del quale non avevo mai sentito parlare: il 5 dicembre a Santo Domingo si festeggia l’immigrato italiano in Repubblica Dominicana; la festività è stata istituita nel 2004.

Il motivo va cercato nella storia: la data famosa è il 12 ottobre 1492, ma c’è, diciamo, un sotto-evento, datato appunto 5 dicembre 1492, quando Cristobal approdò davanti a un posto bellissimo, nel Nord, poco lontano da Puerto Plata, e gli parve adatto a celebrare la sua grande protettrice, la regina Isabela.

Il posto venne chiamato “La Isabela”; nonostante i saccheggi del periodo diattatoriale, c’è ancora qualcosa che ricorda Cristobal e la sua regina.

Anche questa storia me l’ha raccontata Aldo Burzatta.

7:41 pm

Sbobinando (26)

Martedì 26.07.05

Segretariato della comunità italiana di Santo Domingo, ufficio di Aldo Burzatta, faccia e fisico da ragazzone vitaminizzato. Capelli castani corti pettinati da un lato, fronte ampia e intonazione ottimistica nella voce; gesticola con sicurezza e sottolinea i concetti con una grande mobilità degli occhi e della bocca. Si vede che è abituato a trattare con la gente.

Siamo nella palazzina di fronte all’Ambasciata d’Italia, il posto sa di lavoro da vice-ambasciata: rapporti commerciali, pratiche di emigrazione e cose di questo genere.

Lo studio di Burzatta è piccolo: poltrona, scrivania con ampie bordature color radica, due poltroncine, un divanetto; alle pareti diplomi e fotografie, ma anche quadri con grandi disegni precolombiani in rilievo, un grande specchio divide la scrivania dalla finestra, una grande bandiera dominicana incrocia una grande bandiera italiana.

Dice il segretario: “Gli italiani qui fanno cose bellissime cose. Per esempio abbiamo l’accademia della cucina, l’associazione sommelier che questo ottobre ospiterà il congresso nazionale, sarà il primo svolto fuori dall’Italia. Il made in Italy qui è rappresentato al cento per cento, dal turismo alla cultura”.

Gli chiedo: in che rapporti siete con i missionari? Risponde: “Abbiamo ottimi contatti, ma ancora limitati, li abbiamo conosciuti tardi, vogliamo recuperare, far conoscere le attività delle missioni, come quella di Genova in Guaricano”.

Ancora: qual è l’atteggiamento delle autorità locali? “Le istituzioni locali appoggiano moltissimo queste associazioni volontarie, concedendo permessi, facilitando l’importazione di aiuti. Certo, loro non possono fare molto perché il bilancio del Paese non lo permette”.

Insomma si lasciano aiutare. Il simpatico ed efficiente Burzatta valorizza la generosità degli italiani di qui: i proprietari della storica pizzeria Vesuvio che a Natale “svuotano il ristorante e danno da mangiare ai bambini di strada”, oppure un bolognese che a Las Terrenas sta cercando di avviare “un corso di italiano per i bimbi italo-dominicani tramite la collaborazione con il Comune di Castel San Pietro che ha mandato insegnanti e tantissimo materiale”.

Non è proprio così, ma lo scopriremo più avanti.

9:41 pm

Sbobinando (25)

Ancora Boca Chica, le ultime dalla spiaggia.

Una cesta di aragoste spettacolari, rosse come non le avevo mai viste. Mio suocero Achille me ne parlava sempre raccontandomi dei suoi viaggi nei Caraibi e dei pesci straordinari che vedeva pescare e vendere per quattro soldi. Lui le cucinava alla grande, quando ne parlava gli brillavano gli occhi. Ora che le vedo capisco.

Niente passa inosservato. Il buttadentro di un famoso bar ristorante di Boca Chica è un metro ottanta per 130 chili, camicione bianco aperto sulla pancia, pizzetto brizzolato, aria da predicatore, eloquio da televenditore. Faccio in tempo a chiedergli che cosa ci sia nel menu. Scrivo come capisco, e poiché parla a raffica capisco la metà.

Dice: “Questa è l’università del marisco, abbiamo il pesce fresco, aragosta, polpo, lambì, gamberi, pesce freschissimo, arroz, habichuela, la carne, insalata, la migliore piña colada dominicana. Tranquillità, onestà e sicurezza per voi. Tutti gli italiani vengono qui. È il nostro motto: onestà e sicurezza”.

Intorno, ragazze vestite alla marinara che ballano, baristi e camerieri indaffaratissimi, e poi capannelli di giocatori di domino, chiacchiere multilingue, un enorme americano legge l’ultima di Harry Potter, un fruttivendolo espone frutta strepitosa, un gigantesco poliziotto ci guarda con interesse.

Sembra Denzel Washington, l’attore. No, è il suo sosia dominicano: alto e massiccio, stemma di riconoscimento sul berretto scuro calato sugli occhiali scuri e a specchio, divisa di un bianco impeccabile, mostrine da sergente sui pizzi del colletto.

“Appartengo alla Politur, la Polizia turistica. Siamo qua per garantire la sicurezza degli ospiti, per orientarli e per proteggerli. Noi diamo appoggio al turista affinchè non abbia problemi e al suo ritorno in patria dica a tutti che si è trovato bene. Il turismo per noi è una risorsa importante”.

Non male l’idea del Politur. Voi che ne dite?

9:41 pm

Sbobinando (24)

(Scusate l’assenza, ma il lavoro chiamava e non ho potuto sbobinare; comunque, rieccomi: è sempre il pomeriggio di lunedì 25 luglio 2005)

Da Boca Chica a Prà il passo è breve: merito di Nancy, proprietaria di un ristorante ma soprattutto di un bel faccione sorridente.

Siamo entrati nel locale perché prometteva cucina italiana e abbiamo trovato una dominicana che dice “la nostra cucina romagnola” e sa tutto sul pesto, mostra il menu che vanta le nostre care trenette e confessa, come unico cruccio, l’uso di un mortaio di legno anziché di marmo.

Nancy è un bel tipo: ha imparato la cucina romagnola da un fidanzato romagnolo, e i segreti del pesto, su suggerimento (indovinate un po’) di un altro fidanzato, li ha appresi nei ristoranti di Genova e riviere; sa tutto, comprese naturalmente le qualità del miglior basilico.

Non vorrebbe farsi intervistare perché non è in tiro come dovrebbe esserlo la dueña di un ristorante, poi si arrende.

“Lo so che il vero basilico è quello di Prà – ci spiega sfidando la nostra incredulità – quando sono stata a Genova sono andata a cercarlo, è stata una cosa davvero interessante”.

Sfodera due tovagliette, una raffigurante i luoghi colombiani di Genova e Liguria, una monografica sul pesto.

Ma come fa a farlo qui? “Ho un po’ di terra, me lo coltivo. Uso solo le foglioline piccole, altrimenti sa di menta e non va bene”.

Il suo italiano è ottimo. Il locale è molto bello. La cucina sarà anche romagnola con un’eccezione per il pesto, ma le pareti sono tutte dedicate a Genova: foto, carte nautiche, ce n’è perfino una dettagliata sul porto con la diga foranea in primo piano.

Peccato non siano neanche le quattro del pomeriggio: io che all’estero non mangio italiano, per le trenette al pesto avrei fatto un’eccezione.

9:17 pm

Sbobinando (23)

A Boca Chica arriviamo intorno alle 15; ho letto e mi hanno detto che è un luogo di peccatori e peccatrici.

È incredibile che il posto si presenti, almeno dall’accesso dove capitiamo noi, come luogo per famiglie: un pezzo di spiaggia grande quanto mezzo campo di calcio, giochi per bambini, venditori ambulanti carichi di salvagenti di tutte le taglie, per un mare la cui profondità non supera la misura di una tibia; verso destra la spiaggia diventa una lingua di sabbia compatta e dura, larga due metri e lunga qualche centinaio.

Penso che abbiamo fatto bene a preferire Juan Dolio, prima di tutto perchè qui non saremmo riusciti a fare il bagno, poi perché c’è più confusione; quanto al resto, non so.

Mi guardo intorno e penso a quando ero militare (purtroppo sono già passati quasi trent’anni): i miei amici volevano essere invitati a Genova con la promessa di accompagnarli in via Prè.

Non mi credevano quando dicevo che era un luogo di peccati trascorsi, sempre meno colorato e sempre più triste: poca e sgangherata sostanza, tanta leggenda, storie da sopravvissuti.

A Boca Chica staremo poco. Forse perché cerchiamo altro, troveremo solo qualche comparsa. E per fortuna, tracce di altre storie.

9:17 pm

Sbobinando (22)

Alla spiaggia di Juan Dolio si arriva percorrendo una superstrada ampia e veloce, una mezz’ora abbondante dopo l’uscita dal centro di Santo Domingo; a un certo punto si svolta a destra e ci si trova in un posto identico a tanti altri.

Almeno qui, i Caraibi, come aveva detto un tizio a proposito dell’Italia, sono un’espressione geografica: gli stradoni sono uguali dappertutto, quelli che corrono paralleli al mare fanno ancora più impressione.

Vedendo le palme, finalmente un sussulto: stiamo per entrare nella cartolina. C’è un bar-capanno, siamo i primi clienti, c’è anche una signora italiana un po’ volgare: chi l’ha detto che solo gli uomini fanno turismo sessuale? Dice che viene spesso. Buona vacanza.

Il posto è “telegenico”, ma non ridete se dico che la spiaggia di Arenzano, alla stessa ora, con la sabbia stirata dalla risacca non è meno attraente; in più, l’acqua sa di mare e il mare libera uno sapore di iodio che qui non riesco a sentire.

Il posto mi sembrerebbe finto se un recente ciclone non avesse seminato un po’ di danni, costringendo il titolare di un albergo a svenderlo nonostante sia in buone condizioni generali.

Da una villa ben protetta esce il guardiano e ci spiega che centomila dollari, qualcosa di più qualcosa di meno, bastano per comprare un posto da sogno come quello in cui sta facendo lavori di manutenzione.

Ci guardiamo intorno, tutti vendono qualcosa: un monolocale, un esercizio commerciale, una casa con piscina.

La spiaggia è maltrattata: rami, tronchi d’albero, arbusti: ma l’ha fatto il ciclone di metà luglio? “No, señor, è stato l’anno scorso”. L’anno scorso? Vabbè.

Tito gira a lungo, trova perfino una sorta di prato davanti al mare, ed è bello il gioco della telecamera, che sale dalle piantine alla classica panoramica sulle palme inchinate verso gli ombrelloni e le sdraio.

I ragazzi fanno il bagno, don Lorenzo va a fare la spesa per il pranzo (consumeremo ottimi panini), Francesco stupisce tutti con un formidabile cappellaccio a tesa larga e floscia: uno spettacolo che non mi avventuro a descrivere.

Milena non resiste alle ragazze haitiane che le propongono una testa di treccine, altrettanto la Benny: per lei (Milena aveva già concordato la tariffa) ingaggio una trattativa che vale uno sconto di 5 dollari e un’accusa. “Tu non sei italiano”, mi dice una delle parrucchiere.

Un po’ più in là Tito sta riprendendo una barca carica di pesce fresco; Francesco accetta l’invito di un venditore di noci di cocco e in pochi minuti abbiamo anche il dessert.

L’apertura delle noci è spettacolare, a colpi di machete, la lama che sfiora le dita che tengono il cocco, lui sicuro di sé e noi col fiato sospeso. Il conto è onesto.

La troupe (Francesco, Tito e io) dichiara finita la gita e parte per Boca Chica.

9:50 pm

Sbobinando (21)

Lunedì 25, ore 8.30.

Nella vecchissima Mitsubishi rossa con i sedili sfondati e il parabrezza con un buco dal quale si dipartono crepe identiche ai raggi del sole, Tito e io sprofondiamo più che altro sorpresi: questa ci mancava, ma è giusto provarla.

Diciamo la verità: a Genova, su una macchina così, non saremmo mai saliti. Non so se più per paura o più per vergogna. Il fatto è che da noi una macchina così potrebbe stare solo da un demolitore, qui sta onorevolmente nella media, fra le auto decenti dei benestanti e le carcasse arrugginite dei loro dirimpettai.

El chofer de confianza l’autista di fiducia trovato da don Paolo, guida con sicurezza in direzione di Juan Dolio, il posto che abbiamo chiesto di vedere e dove alla fine s’è deciso di fare un bagno, perché non si può tornare dai Caraibi senza aver assaggiato il mare e la spiaggia da cartolina.

La nostra guida è sempre Francesco. Sul pick up della missione c’è don Lorenzo: porta i ragazzi, per un giorno è gita anche per loro; Benedetta e Milena vogliono farsi fare le treccine.

Scopriremo che le ragazze haitiane fanno treccine in cambio di 20 dollari. Alla sesta cliente hanno guadagnato quanto in un mese il guardiano notturno conosciuto in cañada, quello che rischia la vita per difendere la stazione di servizio dall’assalto dei tiguere.

Un’altra conferma che le attività turistiche e assimilate viaggiano per conto loro.

Ci guardiamo intorno: gruppi di spazzine puliscono la strada (“Siamo in campagna elettorale”, ci spiega el chofer), il traffico è disordinato ma veloce, a ogni semaforo una dozzina fra ragazzi e adulti, uomini e donne, offrono qualunque cosa, dalla pulizia del vetro alle barrette di cioccolata, dalle bottigliette d’acqua ai sigari, dalle caramelle ai giornali.

Semaforo verde, siamo in seconda o terza fila; l’auto davanti a noi si sposta giusto in tempo per consentire al nostro autista di fare altrettanto, così evitiamo di travolgere la cosa che fa da spartitraffico.

La cosa è una persona. Un ragazzo di colore, avrà al massimo 25 anni.

Cammina sulle mani, aiutandosi con il moncherino della gamba sinistra, che spunta dai jeans tagliati corti. È amputata un po’ sopra il ginocchio. La gamba destra è più corta, dev’essergli stata amputata a metà coscia, forse anche più su.

Muovendosi con fatica, a ogni scatto di semaforo non fa in tempo a mettersi al sicuro, così rimane al centro della strada.

Chissà se si è abituato alle macchine che gli sfrecciano vicino alle orecchie, o se invece gli fanno ancora paura.

9:41 pm

Sbobinando (20)

Dalla cañada alla parrocchia di Santiago el Menor, purtroppo chiusa (causa orario) e allora di nuovo alla cañada, ma da un altro lato e con un percorso che ci offre uno spaccato diverso della realtà dominicana.

Un movimento oltre una grata attira la mia curiosità. Mi avvicino e scopro un panificio semi-industriale: una fila di carrelli alti due metri e pieni di lame a loro volta piene di panini, uguali a quelli che si vendono dappertutto. Saranno migliaia.

Guardo meglio nel buio e vedo un certo numero di bambini, non distinguo che cosa facciano. Uno di loro si affaccia, domando il permesso di fare qualche ripresa, lui va a chiedere a qualcuno. Sento una voce d’adulto che dice di no.

Proseguendo precipitiamo in una scena da film anni ’50.

Frammento di paese, la strada che si apre in due, divisa da un muro largo tre metri; al centro del muro un ragazzino con la mazza tipo baseball aggredisce qualcosa che somiglia a una palla, la colpisce e parte come un proiettile per conquistare la base. Uragano d’entusiasmo.

Un secondo ragazzo, più grande d’età e di statura, si accorge della telecamere e chiede di essere ripreso. Tito fa cenno di sì, lui però non riesce a prendere una palla buona. Poi finalmente l’azzecca e fa quel che deve, ma scatta solo dopo essersi accertato che Tito l’abbia visto.
Altro uragano d’entusiasmo.

Improvvisamente ricordo che nelle pagine sportive del quotidiano che ho visto in missione, prima di pranzo, non avevo trovato una sola riga dedicata al calcio; io stesso ho visto solo baseball, pallavolo e basket. Niente calcio, neanche per sbaglio.

Per ogni cosa c’è sempre una prima volta; questa non mi è dispiaciuta.

1:31 pm

Sbobinando (19)

Tentativo d’intervista.

Dico tentativo perché si vede a occhio quando non c’è speranza: la ragazza dallo sguardo perduto sta proprio pensando ad altro.

Le chiedo della bambina. “Ha quindici giorni, si chiama Liliam”, risponde senza cambiare espressione.

La bimba è un angioletto infilato in una tutina rosa, la testina è protetta da una cuffietta bianca con disegnini di frutta.

La donna anziana ci spiega che la ragazza è preoccupata da un gravissimo problema: la bambina più grande (quella seduta accanto alla mamma), da un mese ha smesso di camminare.

Che cosa è successo? “È caduta dalla sedia e ha battuto la schiena”.

All’ospedale che cos’hanno detto? “Non ce l’hanno portata: la famiglia non ha i soldi”.

Come, la famiglia non ha i soldi: ne servivano così tanti? “No, ma la famiglia è così povera che non ha potuto nemmeno far visitare la bambina”.

Così la piccola rimane lì, senza nessuna cura. Magari bastava poco.

Prova a guardarla Orietta, che è infermiera e come minimo sa come toccarla. Ma che può fare?

Ci chiamano dalla baracca di fronte.

Da una porta di lamiera sbucano una ragazza e una bambina, in un attimo arriva un giovane con la voglia di farsi intervistare: è il terzo (o il primo) membro della famiglia, fa il guardiano di notte a un distributore di benzina.

“È un lavoro pericoloso – mi dice –soprattutto perché è proprio di notte che i tíguere fanno le loro scorribande nel barrio. Sparano, ammazzano anche”.

Hai paura?, gli chiedo. Sorride: “Non posso avere paura: è un lavoretto, ma è l’unica cosa che sia riuscito a trovare”.

Ti pagano bene? “Quattromila pesos al mese”. Centoventi, centotrenta euro, se ho contato bene.

E così adesso sappiamo il valore di una vita nella bella Repubblica Dominicana.

2:58 pm

Sbobinando (18)

Siamo ancora nella cañada.

Dice Francesco: “Peccato non ci sia don Lorenzo, lui questa zona la conosce benissimo”. Carmen e Orietta si guardano intorno sconcertate.

Penso a Milena, Eugenia, Benedetta, Fiammetta e Simone che sono rimasti coi loro coetanei della parrocchia di Amparo, per la sfida a pallavolo: questa sì che sarebbe stata un’esperienza da riportare a Genova, per raccontarla ai loro amici di Castelletto e Bolzaneto.

Penso ai giovani e giovanissimi immigrati che periodicamente vengono scoperti fra i resti della Mira Lanza di Teglia o fra le macerie di qualche altro rudere dell’archeologia industriale genovese.

Giriamo fra casette rivestite di lamiere cascanti, pezzi di legno come pareti, alberi di cocco che spuntano ovunque e almeno danno un poco di ristoro.

Davanti a una baracca c’è un quadretto dominicano che stringe il cuore: su una sedia bianca di plastica è seduta una bambina di un anno, porta solo una collana di palline colorate ed è immobile, accanto alla mamma seduta su una sedia identica e con una bimba piccolissima in braccio.

È una mamma giovane, con lo stesso sguardo senza espressione della figlia maggiore.

È vestita senza passione: gonna azzurrina che in realtà potrebbe essere l’orlo di una sottana, camicia da uomo a rettangoli grigi disposti in verticale, in testa un berretto con la visiera dal quale spunta un fazzoletto rosso con disegnini bianchi.

Accanto a loro c’è una signora che direi anziana, ma probabilmente non supera (o supera di poco) i cinquanta.

Gente della Canada, scrivo sbobinando.

Quando mi accorgo dell’errore mi scappa un sorriso amaro: “Avevo una casetta piccolina in Canadà…”.

10:56 pm

Sbobinando (17)

Ora capisco perché Juan mi aveva chiesto di aspettare: voleva rendersi presentabile prima dell’intervista.

Infatti s’è presentato indossando una bella camicia di cotone pesante, tipo jeans, con quadrettoni davanti.

È sul metro e settantacinque, faccia rotonda, baffetti morbidi. La voce è piena, il tono misurato.

Dice: “Qui abitano persone molto povere, in condizioni che hanno dell’incredibile. Guardate la cañada, il problema igienico è gravissimo: nella fogna si scaricano feci e tutti il resto”.

Mi guardo intorno. Respiriamo la puzza della fogna. Come fanno a viverci?

Mi viene in mente il fiume nero che divide in due la favela di San Josè a Belo Horizonte, in Brasile: quando la vidi, mi colpì la presenza dei maiali e il lento scorrere dall’alto in basso dell’acqua fetente, una ruga maleodorante in una montagna di spazzatura e umanità ferita.

Qui l’acqua fetente attraversa un tratto pianeggiante girando intorno ad alberi che sarebbero bellissimi, e a tratti si apre in squarci di natura che chissà cos’era prima che la cambiassero.

Vedo un giovane al lavoro fra il fiume e il retro della sua casa, sta rinforzando un argine che le ultime piogge hanno indebolito.

Dice Juan Reyos: “Il pericolo di contaminazione è enorme, è stata la povertà a creare questa situazione. Non possiamo difenderci. Non so quanti siano gli abitanti, ma so che la maggior parte non ha di che mangiare e non lavora”.

Mi hanno detto che abitare qui sarebbe proibito.

“Non abbiamo un altro posto. Però abbiamo la speranza che le cose possano migliorare, che le autorità ci aiutino”.

Insisto: vi hanno promesso qualcosa?

La risposta è un capolavoro di educazione: “So che un gruppo di abitanti è andato al Municipio, ma non ho ancora avuto occasione di vedere qualche risultato”.

9:13 pm

Sbobinando (16)

Juan Reyes si è andato a cambiare per fare l’intervista.

L’avevo incontrato sulla scaletta ripida che dalla strada scende nella distesa di baracche lungo la cañada, la versione dominicana delle favelas che ho visto in Brasile; lì (in Brasile) sono impenetrabili a meno di essere accompagnati da persone credibili e conosciute, c’è da farsi ammazzare.

Per non correre rischi, prima di scendere avevo cercato qualcuno con cui parlamentare.

Juan Reyes era in jeans e canottiera, davanti alla prima baracca; mi aveva chiesto in inglese se avessi bisogno di qualcosa, gli avevo risposto che volevo notizie su questo luogo.

È un posto che fa impressione: baracche su baracche lungo un fiume putrido; vedo bottiglie di plastica squarciate, resti di un bambolotto, avanzi di pneumatici; sacchetti lacerati appesi ai rami degli alberi lungo il canale danno la misura del livello dell’acqua nei giorni di piena.

Sacchetti e altri detriti arrivano a due metri, significa che le baracche vengono invase da schifezze d’ogni genere.

Aspettando Juan mi guardo intorno. Da una casetta graziosa, pareti rosa carico con piccole finestre verdi, esce una giovane signora in canottiera rosa, con un bel sorriso aperto.

Signora, non è pericoloso abitare qui?. “Certo che è pericoloso, ma siamo poveri e non possiamo comprare casa da un’altra parte. E allora siamo costretti a restare nella cañada: quando piove stiamo in pericolo”.

È già successo. Succede ogni volta che piove: la fogna si gonfia fino a tracimare, come fanno i piumi in piena.

Chi ha mai visto la piena di una fogna?

9:13 pm

Sbobinando (15)

Ancora la storia delle scarpe, perché non mi va giù.

Percorrendo la via che dalla parrocchia di Amparo porta a una favela che si sviluppa due metri sotto il livello della strada (e dove andremo fra poco), vedo altre scarpe penzolare dai fili della luce.

Tito stringe su queste tracce di vite appese. Dondolano mosse dal vento. Sembrano bandiere a mezz’asta. Penso a come utilizzare queste immagini.

Viste così sono terribili, sembra di vedere degli impiccati.

Forse è la mia immaginazione, ma non posso non vedere come gli aquiloni e le scarpe siano i due capi di un identico filo: c’erano bambini che giocavano con gli aquiloni e poi sono finiti appesi allo stesso modo.

Francesco, succede spesso? “Sì, mi hanno detto che sono 250 i giovani che ogni anno muoiono i questo modo, in un tiroteo con la polizia”.

Quindi ci sono 250 paia di scarpe in più, appese quest’anno? “Penso proprio di sì”.

Come dire: un morto ogni 36 ore, un funerale ogni giorno e mezzo?

“Già. Si vedono tante candele accese lungo le vie che il ragazzo frequentava. Candele accese e scarpe appese esprimono la protesta contro i metodi della polizia: non è detto che tutti i giovani uccisi fossero tiguere, molte volte basta non ubbidire a un alt per essere colpito a morte”.

Per diventare scarpe appese? “Per diventare scarpe appese, sì”.

9:07 pm

Sbobinando (14)

Un bambino perse il suo aquilone che si impigliò nei fili della luce.

Un ragazzo perse le scarpe che si impigliarono nei fili della luce.

Dove sta lo sbaglio?

“Le scarpe appese sono un segno di protesta”, dice Francesco. Cioè? “Sono stati gli amici di un ragazzo ucciso dalla polizia”. Un ragazzo? “Sì, un membro di qualche banda”.

Qui soprattutto di sera è tutta una guerra di bande. La gente normale sta a casa, il barrio diventa territorio di caccia dei tiguere, li chiamano così.

Sono pericolosi? “Molto pericolosi”. E le scarpe? “Sarà andata così: una sera è arrivata la polizia e c’è stato uno scontro a fuoco, oppure più semplicemente gli hanno sparato per chissà quale ragione, non sempre quelle che succede ha una spiegazione lineare”.

Resta la testimonianza. Le scarpe appese urlano la protesta degli amici del morto. Dicono che secondo loro qui è stata fatta giustizia sommaria. Non ne sappiamo di più.

Lungo la strada fra Las Terrenas e Samanà vedremo una decina di paia di scarpe appese nello stesso punto.

Pomeriggio a spasso, vediamo che cosa troviamo. Vediamo se è vero che basta uscire per inciampare nelle notizie: l’ho sempre detto, a volte lo ripeto come se fosse una formula magica.

Ci guida Francesco, un genovese che passa qui buona parte dell’anno. “Sono in pensione, dopo una vita passata in mezzo ai numeri”, racconta.

Lavorava all’Inps (o alla Banca d’Italia?, ndr), anche in missione continua a occuparsi di conti, per esempio quelli della farmacia: “È una formidabile risorsa per la gente del barrio – mi spiega: qui tutto è a carico del paziente, le medicine costano molto, a volte i prezzi sono impossibili. Da noi si possono comprare risparmiando almeno il trenta per cento”.

Non gli chiedo come ciò sia possibile perché la mia attenzione si sposta sull’uomo che sta abbassando la saracinesca, neanche a farlo apposta, di una farmacia. Una gran bella farmacia, a giudicare dalle tre grandi serrande in fila: faranno non meno di cinque-sei metri di vetrine.

L’uomo lavora con calma, posizionando enormi lucchetti e facendoli scattare; poi controlla che siano ben chiusi, sotto gli occhi attenti della signora che gli sta al fianco, alta e bella, vestita con sobria eleganza: maglietta con ampia ma misurata scollatura, giacca beige di buon taglio sopra pantaloni scuri, capelli ramati divisi in mezzo e raccolti da un bel fermaglio.

Lui indossa pantaloni chiari di taglio classico, la camicia azzurra a maniche corte è bene infilata nei pantaloni; se la portasse fuori dai calzoni, la camicia nasconderebbe la pistola infilata nella cintura, ma è chiaro che la pistola, canna d’acciaio e calcio zigrinato nero, è lì per essere vista.

E io un farmacista con la pistola non l’avevo mai visto.

Fossimo a Genova, non mi avrebbe neanche risposto. Io stesso forse non gli avrei neanche fatto la domanda: “Señor, ¿por qué usted tiene la pistola?”.

Come si fa a chiedere a uno con la pistola nei pantaloni come mai tiene la pistola nei pantaloni? A volte si fa. E poiché a Santo Domingo la gente ha la cortesia di rispondere, anche il farmacista con la pistola interrompe le operazioni di messa in sicurezza del suo negozio e mi risponde: “Perché dobbiamo difenderci, non abbiamo alternative”.

Da chi?, gli chiedo, giusto per costruire uno spazio di dialogo. “Dalle bande di delinquenti che infestano le nostre strade”, spiega con garbo, senza alzare la voce.

I suoi trisavoli dovevano essere schiavi portati dall’Africa, chi è venuto dopo s’è incrociato con gente arrivata dall’Europa. Lui è un mulatto piuttosto chiaro, ha i capelli cortissimi e bianchi, porta occhiali senza montatura e stanghette piatte d’oro, è sul metro e settanta, robusto.

Vede le nostre facce perplesse. E domanda: “Quanta polizia ha visto in giro?”. In effetti non molta, ma sono le quattro di domenica pomeriggio e non è che la polizia possa andare dappertutto. “Qui se ne vede poca, mentre di delinquenti se ne vedono tanti”.

Guardo la pistola: le è mai capitato di doverla usare? “No, finora sono stato fortunato”. Chissà se è vero.

9:13 pm

Sbobinando (11)

Nuestra Señora del Amparo è una piccola miniera di sorprese, una specie di dépendance di Genova.

C’è un bellissimo Cristo arrivato da Voltri, con tanto di targhetta che ne ricorda la provenienza (l’avrà portato don Lino, o gliel’avranno mandato a suo tempo i parrocchiani voltresi: mi informerò).

Il pezzo forte è sulla destra, nientemeno che la Madonna della Guardia, proprio quella cui si affidò Papa Giovanni Paolo II quando venne a Genova nel ’90.

Chiedo a Simone di sostituirmi davanti alla telecamera: gli tengo il microfono, facciamo una cosa all’americana (microfono molto basso e intervistato in primo piano, nessun ostacolo fra lui e il telespettatore).

L’esperimento mi sembra buono: come dice Tito, “mettiamolo in macchina”.

Sul grande piazzale davanti alla Chiesa un bel nugolo di ragazzi: chi gioca a pallavolo, chi a baseball, c’è un dj in azione; una mezza dozzina di ragazzine distribuisce dolcetti e bevande, il prezzo è modico: si raccolgono offerte per non so quale attività parrocchiale.

Lo speaker annuncia la presenza de “los hermanos de Genova”, ci accolgono con un applauso e una sfida a pallavolo.

Qualcuno mi chiede: “Giochi anche tu?”. Mostro la pancia. E poi non ero granché neanche da ragazzo.

10:23 pm

Sbobinando (10)

Salutiamo Emiliana e saliamo sul pick-up di don Paolo, destinazione Casa Betania.

Tito azzarda un “camera car”, cioè una ripresa dalla macchina. Il don va un po’ forte, anche il “camera car” viene così così. Forse nel montaggio non potrò utilizzarlo.

Tito me lo dice subito, mugugnando un po’. In ogni caso, gira: nel dubbio, come dice lui, “è sempre meglio mettere in macchina qualcosa”.

Finora ha messo in macchina (nella telecamera) trenta minuti di buone riprese.

Abbiamo appena cominciato.

10:23 pm

Sbobinando (9)

L’intervista a Emiliana la facciamo un po’ troppo di corsa: mi dovrebbe spiegare la storia di una scuola, il cui terreno è stato vigliaccamente ceduto a terzi per una speculazione edilizia la cui consistenza si vedrà più avanti.

Per evitare che la gente del barrio faccia valere i propri diritti, il proprietario (passato o presente, non l’ho capito) ha fatto erigere una parete lunga più o meno un chilometro; la parete parte proprio dal muro della scuola, ed è uno dei diversi muri della vergogna che incontreremo girando per Santo Domingo.

Non so se potrò utilizzare l’intervista fatta a Emiliana. Proverò a salvare qualcosa, almeno la frase conclusiva: “Si sa che i ricchi approfittano sempre della debolezza dei poveri”.

Niente di originale, semplicemente vera.

10:23 pm

Sbobinando (8)

Candido è magro e alto: come a chiunque abbia superato il 40, uomo o donna che sia, ha un’età che non so definire. È magro e alto, dà un certo senso di forza, forse perché parla con calma. Ci offre una curiosa analogia: “La missione di Genova è per noi quello che la batteria è per il cellulare: la inserisci e il cellulare va”.

Prima di parlare con lui ho chiesto un paio di cose a Pastora Arias, che ha risposto con grandi sorrisi e poche parole, trasmettendomi comunque una intensa carica spirituale.

Candido dà soddisfazione: il suo è un ragionamento bene articolato.

“Questo per me è un giorno meraviglioso – dice – perché segna la crescita della nostra comunità: la Cappella dimostra che abbiamo fatto così tanta strada da dover già dividere la Parrocchia, è un risultato straordinario. Stiamo facendo un grande lavoro: siamo orgogliosi di essere dominicani e di condividere questa grande esperienza, che rafforza il nostro spirito, il nostro essere cristiani”.

Perché nessuno può dimenticare l’inizio della storia: “Quando arrivò la missione vivevamo in un’enorme discarica di spazzatura; con lo sviluppo del progetto pastorale e con l’aiuto dei fratelli di Genova stiamo trasformando il nostro barrio in un posto civile, pulito. Certo, siamo poveri, ma abbiamo trovato la voglia di lottare e di avere una speranza”.

Che bella la voglia di avere una speranza.

10:20 pm

Sbobinando (7)

Anche Juana mi sembra un bel tipo. Piccola come Roselina, altrettanto convinta di vivere un’esperienza spiritualmente importante; sorriso aperto, capelli lisci nerissimi, orecchini ad anello di medio diametro, giusti per il suo viso, maglietta bianca a vu, piccoli occhiali da vista senza montatura.

Dice Juana: “Abbiamo condiviso la costruzione di questa Cappella, ci siamo preparati per tanto tempo a comprendere il valore della sorpresa che il Signore ci ha regalato. Per ora è piccola, avete visto quanta gente è rimasta fuori? Siamo sicuri che un giorno sarà una bella Parrocchia, come le altre che i missionari di Genova hanno aperto nel nostro barrio in questi anni”.

Le chiedo notizie di vita quotidiana.

Mancano la corrente e l’acqua potabile, mi spiega: alla sera fa davvero buio presto, e alle dieci di sera il buio totale fa un certo effetto: la centrale che fa orribile mostra di sé accanto alla missione, dunque in pieno barrio Guaricano, è una beffa oltre che una presenza incongrua con il senso comune.

Penso alla gente sfrattata dal Faro a Colón e riparata in Guaricano (ne parleremo più avanti): prima ha faticato a sostituirsi a una discarica (trasferita a Duquesa: parleremo anche di questo), poi si è ritrovata fra i piedi quest’altro orrore.

Prima stavano malissimo quanto alla puzza.

Come stanno a inquinamento elettromagnetico?

Ho dimenticato di chiederlo a don Paolo, che essendo laureato in fisica sicuramente lo sa.

9:33 pm

Sbobinando (6)

(Ficomincio a sbobinare dopo tre giorni di interruzione, causa eccesso di lavoro: oggi finalmente sono di riposo, dunque riprendo)…

La messa è finita. Sarà che mi sento trasferito ad altro tempo e altra dimensione, ma ho l’impressione che la gente sia davvero andata in pace. Gli uomini portano via le panche, restituite alla Parrocchia Santa Margherita, a Casa Betania dove fra un’ora don Paolo celebrerà di nuovo.

La Cappella appena consacrata si svuota rapidamente come s’era riempita, possiamo registrare qualche intervista.

Roselina è piccola e magra. Appesi ai lobi due orecchini lunghi e sottili, i capelli divisi da una riga precisa e riuniti a coda di cavallo dietro la nuca. Indossa una bella camicetta azzurra con righe sottili e molto larghe, il colletto lungo e appuntito.

Non so quale ruolo abbia fra le donne della comunità del Guaricano, ma parla da leader.

“Per noi la chiesa è il nostro incontro e il nostro inizio – mi dice -. Grazie alla Parrocchia molte persone hanno incontrato Dio: è quello che ci tiene uniti e forti, ci fa essere comunità. Lo dobbiamo a Padre Pablo, gliene siamo molto grati”.

Dice che sentono un forte legame con Genova, comunidad hermana capace di trasmettere aiuto e amicizia.

È bello sentirselo dire.

9:43 pm

Sbobinando (5)

Lo scambio del segno della pace è una via di mezzo fra la nostra ritrosia e l’entusiasmo infinito dei brasiliani; lo facciamo da più di trent’anni: noi non ci siamo ancora ancora abituati a viverlo con l’immediatezza e l’intensità che merita, loro non si sono ancora stancati di andarsi a cercare per tutta la chiesa e di abbracciarsi come se non si vedessero da una vita.

I dominicani mi sembrano disposti al sorriso e a gli abbracci almeno quanto i brasiliani, ma il loro segno della pace mi pare più misurato.

E’ stata una bella Messa, vissuta bene.

Per quello che sono riuscito a capire della predica, don Paolo ha valorizzato bene la Cappella come frutto di sacrifici e volontà comuni, il senso della partecipazione: chi ha lavorato davvero si sarà sentito gratificato; chi si è fatto chiamare più del dovuto chissà che non si sia sentito incoraggiato, mettiamola così, a una futura maggiore solerzia.

M’è piaciuto sentire don Roberto leggere in spagnolo (in seguito scoprirò che conosce anche il tedesco: non c’è male, questi nuovi preti hanno un sacco di risorse).

Mi avventuro anch’io, per la prima volta dopo l’ormai lontano esame all’università.

In realtà è una prima volta assoluta perché allora avevo fatto scena muta e mi aveva salvato la pietà della prof, questa volta mi sono preparato con l’aiuto della Scià Hola, la mia vicina di casa señora Amalia Martínez.

Mi profesora mi ha raccomandato di buttarmi “sin tener vergüenza: lo importante es comunicar”.

Chissà se si scrive così. Comunque mi sono buttato. Sin vergüenza.

9:52 pm

Sbobinando (4)

È il momento: don Paolo va a consacrare la Nuova Cappella, che lui o chi verrà dopo di lui sicuramente un giorno dichiarerà Nuova Parrocchia.

È accompagnato da don Roberto, parroco di Mignanego e cappellano a Bolzaneto, prossimo a trasferirsi nel cuore di Sestri Ponente, in Guaricano da un paio di settimane con Eugenia, Milena e Simone.

Con i due don c’è Marcial, il diacono, uno dei testimoni più significativi della missione pastorale svolta in questi anni dagli inviati della Diocesi di Genova.

Penso che è davvero bello condividere la gioia di chi ha voluto e fatto nascere un Tempio.

Questo ha un aspetto pionieristico, sa di lavoro appena cominciato, per quanto sia l’ultimo frutto di un albero portato da Genova tredici anni fa.

Rifletto sull’innegabile patrimonio di gocce di sudore contenute in ogni primo atto. Mi è stato dato il dono di essere figlio, e il privilegio di trasmetterlo ai miei figli, cui spero di saper comunicare le stesse cose. A cominciare dalla gioia di essere qui.

9:52 pm

Sbobinando (3)

Prima hanno recitato il rosario, ora tutti cantano.

La Cappella è gremita ed è bellissimo guardarla da fuori: i ritardatari non hanno trovato posto e sono all’esterno, quasi tutti in piedi tranne qualche signora anziana cui è stata recuperata una sedia di plastica.

I più previdenti si sono accomodati su panche arrivate dalle parrocchia di Betania: mi è piaciuto vederle scaricare da macchine furgoni e camioncini, e poi portate in chiesa dalle braccia forti degli uomini.

I bambini arrivati per ultimi sono seduti sul gradone lungo il lato maggiore sinistro della sala, quello che affaccia sulla campagna. Tutto ha un ché d’altri tempi.

Sono le 7.30 quando Juana apre un foglio bianco, lo piega al contrario per vedere solo le sette righe che deve leggere.

Scandisce bene le parole: “Il Signore ci ha dato una nuova parrocchia, la perla più preziosa, il tesoro nascosto che abbiamo trovato. Pieni di entusiasmo e di allegria, accogliamo il nostro celebrante”.

10:21 pm

Sbobinando (2)

Spalle alla Cappella, sguardo rivolto alla campagna, fra le mani un libro con la copertina nera. Indossa un vestito color acquamarina, un lungo velo blu elettrico le copre testa e spalle, la vita è cinta da un nastro bianco. Quando si gira mi accorgo che non è una suora, non so darle un’età. Guadagna rapidamente la parete che la ripara dai nostri sguardi e da quello, più fastidioso, della telecamera.

Abbiamo appena cominciato le riprese e già abbiamo spaventato qualcuno.

Resterà l’unica: dominicani e dominicane, senza distinzione di sesso, età e condizione sociale, si fanno fotografare e filmare più che volentieri. Infatti sorridono tutti i parrocchiani accorsi all’inaugurazione della Cappella, e nessuno più si nasconde davanti a Tito.

Sono bellissime le bambine con le treccine inanellate di giallo rosso verde blu, fanno simpatia i loro coetanei maschi, spesso più compresi nel ruolo e dunque più distaccati, ma solo in apparenza.

Sono belle e gentili le loro mamme, che esplodono di felice curiosità, come i loro figli, quando si accorgono che le diavolerie della tecnica permettono loro di vedersi in diretta (mentre la telecamera gira) o di rivedersi subito, immortalati nel display della macchina fotografica.

Cambia l’immagine. Compare don Paolo arrampicato su una scala, dietro l’altare, appiccicato alla parete sulla quale misura il Crocifisso. Chi ha messo il chiodo ha sbagliato la mira, confortato da un paio di consiglieri che abbiamo visto all’opera, senza però avere il coraggio di fermare la sciagurata operazione: inchioda più a destra, no… inchioda più a sinistra.

Insomma, si poteva fare meglio. Quel che conta è che Gesù in croce prenda il proprio posto, poi gli farà compagnia la sua bellissima Madre. E don Paolo farà i gesti della consacrazione. Fuori, los monaguillos e il diacono Marcial preparano l’incenso: camera stretta su un grappolo di mani. Voce di donna, parole felici: “Benvenuti nella nostra nuova Cappella”.

9:19 pm

Sbobinando (1)

Nel nostro gergo, sbobinare significa vedere la registrazione (“il girato”) e prendere appunti: li condivido con voi e provo a raccontarvi, una briciola per volta come pollicino, quello che ho visto. Vi ringrazio ora, e procedo.

(1)

Guaricano, 24 luglio 2005. la luce secca del mattino. la telecamera di Tito inquadra donne e uomini che sembrano venirci incontro: alle sette appena passate non si va a passeggio ma alla prima messa. sono tanti, si presentano in perfetto ordine, uno di loro ha un cartellino che lo qualifica responsabile del servizio d’ordine. penso che non ho mai visto niente del genere nelle nostre parrocchie. forse è un segno che qui, come altri posti in cui la gente ha poco, avere un ruolo è già qualcosa.

Oggi è un giorno importante, si inaugura la nuova cappella. come ricorderà don Paolo (padre Pablo) durante la messa, la costruzione in cemento e legno, col tetto di lamiera come quasi tutti i tetti delle case del barrio Guaricano, è frutto del lavoro dei parrocchiani. “Ciascuno di voi – dirà – ha rinunciato a qualcosa pur di mantenere l’impegno”. Non dev’essere stato facile: mi hanno detto che per i dominicani una delle cose più naturalmente negoziabili è l’appuntamento. ho visto che molti di loro non portano l’orologio. Beh, anch’io, soprattutto d’estate, lo porto malvolentieri.

Al mio arrivo in redazione ho trovato cinque dvd sulla scrivania: Santo Domingo 1 e 2, Santo Domingo 3 e 4 eccetera. Tito è stato di parola, non avevo dubbi. così posso anche chiarire, non avendolo scritto ieri, che cassette, dvd e quant’altro servono a realizzare i servizi per il tg della Liguria e dunque il racconto delle attività missionarie in Guaricano.

Per visionare tutto il materiale servirà un po’ di tempo: si tratta di controllare oltre dieci ore di “girato”, in qualche caso più volte, per selezionare poi il materiale da utilizzare.

È un po’ come tuffarsi in un campo di basilico per scegliere le foglioline migliori, sfidando l’ebbrezza da profumo e altre piccole e meno piccole insidie: la voglia di raccontare, l’urgenza di condividere con quante più persone sia possibile la straordinaria esperienza vissuta, il bisogno (a volte fisico) di portare a compimento un lavoro che so essere molto atteso.

La grande insidia è il tempo, che quando è poco alimenta l’impazienza. Ora, il mio tempo è sempre poco, ma per fortuna non sono (più) un ragazzo impaziente. Non essendo più un ragazzo. Ho imparato a conciliare passioni e impegni: alla fine le cose che mi stanno a cuore si fanno un po’ aspettare, però arrivano.

A proposito: una preghierina aiuta.

…alla posa del primo mattone: sono un po’ questo, la visione delle immagini girate e la verifica delle interviste effettuate. Rappresentano l’autentico inizio della fase esecutiva di un servizio televisivo (vale anche per la radio: la procedura è identica).

Il primo mattone è stato cotto nella telecamera di Tito (quando abbiamo realizzato immagini e interviste), poi è stato messo a seccare (durante i miei dieci giorni di vacanza) nel computer (sempre di Tito) che ha trasformato il contenuto di una dozzina di videocassette digitali in un certo numero di dvd, ciascuno guarnito con pochi ma significativi simboli: il tale dvd contiene le tali videocassette.

Sono gli ingredienti necessari alla preparazione del cibo di cui si nutre il teleutente: appunto, un prodotto giornalistico. Servono immagini, voci, facce, mani, occhi, rughe, sorrisi, dolori. C’è bisogno di persone, delle loro storie, i loro pensieri.

Il mio mestiere è entrare nelle loro storie, nei loro pensieri. Il mio compito è capire se e quando e come le loro cose possano (debbano) essere trasformate in cose di tutti. a volte è pesante. a volte è bellissimo pensare di aver dato voce a persone e storie senza diritto di cronaca.

Sono pensieri che precedono ogni attesa del primo mattone.

ciao padre pablo, ciao padre luensu, francisco, carmen, fiammi, eugenia e le care sorelle della missione,
la nostra (per ora) è finita, ci concederemo qualche giorno di riposo e di riflessione.
è stato bello tornare a casa, lasciarmi travolgere dall’abbraccio felice di alessandro, che in questi giorni dev’essere cresciuto di un paio di centimetri, e da quelli più teneri di martina e di mia moglie antonella.
è stato bello sentirli ansiosi dei miei racconti, che sono proseguito per tutta la sera: prima in pizzeria (carmen: niente a che vedere con la tua) e poi davanti al portatile, commentando le foto.
è stato bello raccontare che ho trovato amici nuovi, con i quali ho condiviso incontri e pensieri. piano piano, conto di raccontare qualcosa anche a questo diario. per ora volevo solo ringraziarvi tutti.
qui arenzano, a voi guaricano.
come dice padre pablo, buon cammino.
tarcisio.

1:44 pm

Pensieri sparsi

Le ragazze che sorridono. Le vecchiette che ti guardano. I bambini che ti saltano addosso. “Tíreme una foto, tíreme una foto”. Click. La tecnologia a volte facilita i rapporti umani: schiacci un tasto e compare la foto. Il bambino ride, si volta a cercare qualcuno che lo prenda in giro. “Tíreme una foto” . Un’altra. Arrivano altri bambini, una mamma, una zia, una nonna, qui si dice “abuela”. Gli uomini si scompongono un po’ meno, ma essere fotografati piace anche a loro.

Penso a come siamo ingessati noi. Vado avanti nel barrio, cerco le differenze, incontro emozioni impreviste: “Qui c’è un ragazzo con una grave infermità”, avverte suor Serafina nel suo italiano che non ha molto da invidiare al mio spagnolo: artigianale il suo, artigianale il mio. L’importante è capirsi. Guardo il ragazzo e mi accorgo di non aver capito: da noi starebbe al Cottolengo, qui è in mezzo agli altri. Giusto o sbagliato? Mi chiedo se fotografarlo oppure no. Giusto o sbagliato? Mi chiedo se provare a parlargli oppure no. Giusto o sbagliato? Penso alla distanza fra le mie troppe domande e la loro immediatezza. Non ne vengo a capo.

Alla fine lo fotografo con discrezione e provo a parlargli. Non mi risponde. Gli sorrido (l’ho visto sorridere: forse capisce). Qualcuno mi chiama, vado a vedere un bimbo piccolissimo, penso ad altro. Qualcuno mi chiama: “Tíreme una foto”. Click. Un’altra foto. L’emozione continua. Con un po’ di confusione. Come la tua, amico lettore dei miei pensieri sparsi.