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Sbobinando (18)

Siamo ancora nella cañada.

Dice Francesco: “Peccato non ci sia don Lorenzo, lui questa zona la conosce benissimo”. Carmen e Orietta si guardano intorno sconcertate.

Penso a Milena, Eugenia, Benedetta, Fiammetta e Simone che sono rimasti coi loro coetanei della parrocchia di Amparo, per la sfida a pallavolo: questa sì che sarebbe stata un’esperienza da riportare a Genova, per raccontarla ai loro amici di Castelletto e Bolzaneto.

Penso ai giovani e giovanissimi immigrati che periodicamente vengono scoperti fra i resti della Mira Lanza di Teglia o fra le macerie di qualche altro rudere dell’archeologia industriale genovese.

Giriamo fra casette rivestite di lamiere cascanti, pezzi di legno come pareti, alberi di cocco che spuntano ovunque e almeno danno un poco di ristoro.

Davanti a una baracca c’è un quadretto dominicano che stringe il cuore: su una sedia bianca di plastica è seduta una bambina di un anno, porta solo una collana di palline colorate ed è immobile, accanto alla mamma seduta su una sedia identica e con una bimba piccolissima in braccio.

È una mamma giovane, con lo stesso sguardo senza espressione della figlia maggiore.

È vestita senza passione: gonna azzurrina che in realtà potrebbe essere l’orlo di una sottana, camicia da uomo a rettangoli grigi disposti in verticale, in testa un berretto con la visiera dal quale spunta un fazzoletto rosso con disegnini bianchi.

Accanto a loro c’è una signora che direi anziana, ma probabilmente non supera (o supera di poco) i cinquanta.

Gente della Canada, scrivo sbobinando.

Quando mi accorgo dell’errore mi scappa un sorriso amaro: “Avevo una casetta piccolina in Canadà…”.

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