Vi presento il testo di una relazione che farò il prossimo settembre al corso diocesano di formazione per catechisti.

Ho avuto la grazia di lavorare nella Missione Diocesana del Guaricano, a Santo Domingo. Il card. Tettamanzi mi ha inviato per rimanervi due cicli di tre anni ognuno, ma le circostanze e, io credo, la Provvidenza del Padre, hanno voluto che vi rimanessi tre cicli, per un totale di nove anni. Mi sono serviti tutti: i primi tre per rendermi conto di dov’ero, brancolando quasi nel buio di un ambiente che stavo imparando a conoscere; i secondi tre per impostare il lavoro di evangelizzazione; gli ultimi tre per consolidare quanto impostato.

L’esperienza missionaria mi ha aiutato a maturare una visione e una pratica più profonda di alcuni aspetti, che voglio condividere con voi.

Anzitutto, ho interiorizzato il dato tante volte affermato anche qui da noi, anche se difficile da attuare: che “prima” dei bambini bisogna evangelizzare e catechizzare gli adulti. Questa presa di coscienza è passata attraverso due esperienze: la pratica del catecumenato dei giovani e degli adulti, e l’implementazione di percorsi di rievangelizzazione degli adulti.

1. Il catecumenato

Come funziona il catecumenato nell’arcidiocesi di Santo Domingo? La diocesi non ha ancora dato indicazioni definite sui tempi di formazione, ma a livello liturgico le cose sono semplici, perché il RICA è lì, per loro come per noi, e si tratta di studiarlo e di applicarlo. Chi ha interesse può trovarlo sul web sul sito maranatha.it. Ma la vera difficoltà a Santo Domingo è lo scollamento tra la vita e la fede, e in particolare tra la fede e la famiglia.

A Santo Domingo c’è almeno un 30% di persone che si considerano cattolici (potremmo dire per tradizione più che per una fede viva) ma non sono battezzati, e la stragrande maggioranza sono conviventi senza nessuna intenzione di sposarsi. La Chiesa intende che non ha senso battezzarsi e continuare a convivere, ma la gente non lo capisce, e anche vari preti sostengono che il battesimo è un diritto, e che quindi i conviventi si possono battezzare.

Questa situazione comportava una battaglia senza fine per far capire che si deve fare insieme la preparazione al Battesimo e al Matrimonio, e che chi convive si battezzerà quando sarà disposto a sposarsi. E poi, dei cento catechisti che nel corso degli anni sono riuscito ad avere, almeno tre o quattro non sono mai riusciti a comprendere neanche loro tale questione, e quindi di fronte agli adulti che esprimevano loro la “difficoltà” per battezzarsi non erano in grado di offrire una risposta chiara, e a volte peggioravano ancora di più le cose.

Al di là di queste difficoltà, avevamo ogni anno una decina di adulti e una ventina di giovani che si battezzavano. Seguivano la catechesi per lo meno dal mese di settembre; verso gennaio i catechisti facevano il discernimento di chi era maturo per battezzarsi, e con la quaresima iniziava la preparazione liturgica e quella catechetica specifica, con sei/sette incontri dedicati a sviscerare il battesimo e il suo significato.

Nella solenne vigilia pasquale la celebrazione del battesimo. Ho avuto la gioia di poter allestire nella chiesa parrocchiale la piscina battesimale secondo l’uso antico. Ha una profondità di circa un metro, ed è dotata di tre scalini per scendere nell’acqua. Il catecumeno scende gli scalini, e si immerge tre volte nell’acqua con tutto il corpo, mentre il sacerdote pronuncia la formula del battesimo. La simbologia della morte e risurrezione di Cristo è plasticamente resa dalla triplice immersione ed emersione. La prima volta che abbiamo fatto i solenni battesimi per immersione molti fedeli della parrocchia si sono avvicinati a me e mi hanno chiesto: “Posso battezzarmi di nuovo?”. Ovviamente la mia risposta era un chiaro “no”, e tuttavia mi colpiva l’entusiasmo che quella modalità aveva stimolato.

L’implementazione del battesimo per immersione in rapporto alla modalità per infusione – che peraltro era richiesta in soggetti malati o in donne mestruate – ha la stessa valenza della comunione sotto le due specie rispetto a quella al solo Corpo di Cristo. Nulla manca nella modalità più “povera”, ma nell’altra il segno viene espresso in tutta la sua ricchezza.

La cosa più difficile, con i nostri catecumeni, era la perseveranza. In Repubblica Dominicana c’è di sottofondo una percezione superstiziosa del battesimo, percezione che illustro con un curioso aneddoto. Il parroco di una parrocchia viciniore stava battezzando vari giovani che i suoi catechisti gli avevano preparato; i giovani si avvicinavano al battistero senza nessun documento in mano; tra di loro c’era un delinquente, che non apparteneva al gruppo, ma che si era introdotto nella fila dei battezzandi; e questo perché? Perché la nonna, donna “di fede”, gli aveva suggerito che, se fosse stato battezzato, il Signore l’avrebbe protetto nel suo “lavoro”, e gli sbirri non gli avrebbero messo le mani addosso! Il parroco in questione non sapeva niente di tutto ciò, e fidandosi dei suoi catechisti, battezzò tutti i giovani, compreso il delinquente. Venne a conoscenza della cosa solo dopo alcuni mesi, perché gli dissero che il tizio era morto in uno “scambio di spari” con la polizia.

In questa cultura, quindi, la perseveranza dopo il battesimo non era per niente scontata. Posso dire che la maggioranza dei giovani e degli adulti che si battezzavano spariva dalla chiesa il giorno dopo la domenica in Albis. Mi aveva poi colpito fortemente il rendermi conto che una di queste giovani, che a me pareva una ragazza veramente in gamba, un anno dopo il battesimo era già diventata evangelica!

2. I percorsi di rievangelizzazione degli adulti

Il secondo aspetto che il Signore mi ha condotto a privilegiare durante il mio lavoro a Santo Domingo è stato la rievangelizzazione degli adulti. Basandomi sull’ottimo lavoro svolto da don Lino Terrile, che ho sostituito, ho potuto organizzare in maniera più organica alcuni aspetti che grazie a lui erano già diventati tradizione nella parrocchia: le missioni parrocchiali e i ritiri di evangelizzazione.

Don Lino aveva fatto nel 1994 la prima missione parrocchiale d’agosto. Per quindici giorni la parrocchia non faceva altro che percorrere tutte le strade e presentarsi a tutte le case. Opportunamente preparati, i laici andavano due a due, realizzando una visita nella quale avevano spazio un breve annuncio del kerigma, una piccola testimonianza della propria conversione al Signore, e l’invito a iniziare un cammino nella Chiesa; concretamente, si invitava a una Messa o celebrazione serale nello stesso settore. Tali missioni si erano ripetute tutti gli anni, e la gente le viveva con gran entusiasmo.

Don Lino aveva organizzato anche vari Ritiri di Evangelizzazione. Si trattava di esperienze di annuncio di Cristo e dello Spirito, qualcosa di simile ai Cursillos de Cristianidad che conosciamo. Tutti gli anni se ne faceva almeno uno, e molta gente vi aveva trovato la grazia della conversione.

Dopo alcuni anni in cui avevo continuato a fare più o meno le stesse cose, mi stavo chiedendo se non si poteva fare il tutto in maniera migliore. In realtà non avevo ancora presente il nocciolo della questione, che invece mi sarebbe diventato chiaro più avanti. Il Signore volle che andassi a cercare la comunità che aveva portato alla Repubblica Dominicana i ritiri di evangelizzazione, e la trovai nella Fraternidad de los Misioneros de la Cruz. Questi risultarono essere un movimento apostolico nato in Messico. Il fondatore, un certo padre Alfonso Navarro (morto nel 2003), aveva messo insieme in un piano pastorale organico le esperienze migliori che aveva conosciuto attorno a sé. Ne era nato il piano pastorale che egli chiamò SINE, Sistema Integrale di Nuova Evangelizzazione. Di tale Sistema era un elemento chiave il ritiro di evangelizzazione che già conoscevo, ma esso era inserito in un percorso che voleva portare il cristiano “principiante” a vivere la pienezza della vita cristiana.

Ringrazio il Signore che le persone che la Fraternità mi mandò e che mi accompagnarono nell’implementazione di tale sistema furono molto rispettose del mio ministero di parroco. Ero personalmente convinto che non aveva senso prendere un “prodotto pastorale” e implementarlo a scatola chiusa; al contrario, era necessario un discernimento per vedere cosa e come applicare alla nostra realtà parrocchiale. Fu così che iniziammo questo nuovo piano pastorale, nella maniera che vi spiegherò adesso in dettaglio. Parlerò non al passato ma al presente, perché tale processo continua ancora nella parrocchia. La comunità lo sente suo.

Il punto fondamentale è che bisogna incamminare le persone a un processo che li faccia maturare.

Si inizia con l’annuncio entusiasta dell’amore del Signore. Esso ha luogo nella missione parrocchiale annuale: in ogni missione quanti dimostrano interesse e volontà vengono invitati a preparasi al ritiro di evangelizzazione. Oltre a ciò, le persone già evangelizzate visitano sistematicamente una ventina di famiglie ognuna, e anche qui dove c’è la sensibilità sufficiente invitano a prepararsi per il ritiro di evangelizzazione.

E di fatto con quanti si lasciano “pescare” si inizia un piccolo cammino di preparazione, circa due mesi, con incontri settimanali fatti in varie case vicino a dove vive la gente. In questi incontri un fratello evangelizzato introduce, con piccole pennellate, i temi che verranno sviluppati nel ritiro di evangelizzazione. L’intento è duplice: preparare i cuori a ricevere il messaggio di Cristo salvatore, e saggiare la capacità di perseveranza.

Così si arriva al ritiro di evangelizzazione. Tutta la comunità parrocchiale è coinvolta, chi nelle varie equipe del ritiro, chi nell’adorazione eucaristica continuata durante tutto il tempo del ritiro. E il ritiro prende due domeniche intere, iniziando con la Messa comunitaria delle sette di mattina della prima domenica e terminando con la Messa d’orario delle sette di sera della seconda. La prima domenica è dedicata ai temi cristologici: dopo l’annuncio dell’amore del Padre, la presa di coscienza del peccato, l’annuncio di Cristo vincitore del peccato, l’esigenza di convertirsi e di vivere nella fede e nella comunità cristiana. La seconda domenica inizia con la liturgia penitenziale, ma dopo si snoda nell’annuncio dello Spirito Santo, donato nella Pentecoste, nella storia della Chiesa, e nel nostro oggi. E si fa l’esperienza dello Spirito, invocandone la venuta su ognuno dei presenti. Nella celebrazione eucaristica finale si riassume il tutto e i partecipanti sono accolti dalla comunità parrocchiale e dai loro familiari.

Il ritiro di evangelizzazione ha un’appendice il sabato o la domenica seguente: si ascoltano le testimonianze, spesso commoventi, di quanti hanno partecipato, e si lancia il “cammino di perseveranza”, che consisterà in una catechesi di dodici settimane incentrata soprattutto sulla vita di comunità.

Al termine di tale catechesi si formano le comunità apostoliche. Sono comunità praticamente chiuse, composte cioè soltanto da quanti hanno realizzato il percorso, e che si riuniscono settimanalmente in una casa per un incontro di tre ore fatto di preghiera, di studio di una catechesi scritta, e di condivisione di vita. In queste comunità si genera un legame affettivo molto forte tra i membri, legame che aiuta a mantenersi nel cammino. Al tempo stesso la rete dei responsabili di tali comunità diventa in maniera naturale un veicolo sia di comunicazione con le persone impegnate della comunità, sia di coinvolgimento nelle iniziative parrocchiali.

Oltre al cammino nella comunità apostolica, gli “evangelizzati” ricevono un “fratello maggiore” che fa loro una sorta di leggera direzione spirituale mensile, e versano la “decima” delle loro entrate. A livello di pastorale vengono loro affidate venti famiglie da visitare mensilmente (la “decima del tempo” che danno al Signore). In questa visita mensile, oltre che nelle missioni parrocchiali, viene lanciata continuamente la rete dei pescatori di uomini.

Abbiamo iniziato con questo processo evangelizzatore continuo nel 2001. I primi ad essere coinvolti sono stati coloro che erano già impegnati nella parrocchia. Dopo di loro il Signore non ha mai smesso di chiamare, e al momento in cui ho lasciato la missione erano passati per questo processo di rievangelizzazione circa seicento persone. Riiniziavamo una o due volte all’anno il processo, ogni volta con un minimo di cinquanta e un massimo di duecento persone (tenere presente che la parrocchia aveva diecimila famiglie). La maggior parte di loro ha perseverato, qualcuno ha cambiato casa, qualcuno si è stancato, qualcuno di loro è addirittura diventato evangelico (sic!). E per me il vedere che il processo ha funzionato, e che con il tempo si è rafforzato, ha fatto capire che è possibile realizzare qualcosa di simile in tutte le situazioni.

Certo, non prima di aver conosciuto a fondo la comunità, le sue potenzialità, le sue esperienze, i suoi gusti. Nel caso mio del Guaricano ho impiegato tre anni per arrivare a questa conoscenza. E ho fiducia nel Signore che anche dove il Lui mi ha mandato ora riusciremo a mettere insieme qualcosa di grande e bello.

3. La catechesi “vicino alla gente”

Il terzo aspetto di cui vi vorrei brevemente parlare è il fatto che al Guaricano la catechesi si faceva “vicino a dov’era la gente”. Trovandomi a lavorare in una realtà di diecimila famiglie, sparse su una superficie di cinque chilometri quadrati, non era possibile il modello nostro della catechesi in parrocchia. Ho dovuto quindi puntare a una catechesi decentrata.

In pratica in ognuno dei settori in cui era suddivisa la parrocchia c’erano uno o più centri di catechesi. Ogni centro aveva il suo gruppo di catechisti, che in genere abitavano nello stesso settore; tra di essi uno era il responsabile del Centro di catechesi, ed era il mio primo referente per sapere l’andamento della catechesi nel settore, per far arrivare notizie e per far partire iniziative.

La parrocchia vive dei momenti di incontro di tutti i catechisti, soprattutto all’inizio e alla fine dell’anno catechistico. In entrambi i momenti portavo avanti un percorso di formazione sistematica, sia metodologica che teologica. Poi avevamo gli incontri mensili, dedicati a questioni organizzative e alla pratica dell’incontro. Ma a parte questi momenti, e a parte l’Eucaristia domenicale, tutto il resto si svolgeva nei settori. Una responsabile parrocchiale mi aiutava visitando le sedi della catechesi, e mi faceva da trait d’union con i singoli catechisti e i responsabili di settore.

Il carattere decentrato portava varie difficoltà, perché a volte non ero in grado di valutare l’efficacia dell’incontro di catechesi, o per lo meno diventava più difficile rispetto alla situazione di tutta la catechesi in parrocchia. D’altro lato, ho presentato fortemente tale modalità come uno sforzo della Chiesa per avvicinarsi alla gente. Nella nostra situazione, e forse anche in Italia, le famiglie avevano bisogno di sentirsi cercate, di sentire che la Chiesa le metteva in condizione di rendere facile la catechesi ai loro figli.

La differenza che ho visto passando dalla catechesi in parrocchia (i primi due anni che ero lì) alla catechesi nei settori (gli anni successivi) è stata fortissima. Da un lato, i bambini iscritti sono passati da duecento a mille. I catechisti, invece, sono aumentati, negli anni, da trenta a cento, anche perché in agosto facevo sempre inviti accorati a prepararsi per diventare catechisti. Un po’ perché c’era bisogno, un po’ per l’entusiasmo di essere una chiesa giovane, ho mietuto dei bei frutti. Dei quali ringrazio il Signore di cuore.

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