Ora capisco perché Juan mi aveva chiesto di aspettare: voleva rendersi presentabile prima dell’intervista.
Infatti s’è presentato indossando una bella camicia di cotone pesante, tipo jeans, con quadrettoni davanti.
È sul metro e settantacinque, faccia rotonda, baffetti morbidi. La voce è piena, il tono misurato.
Dice: “Qui abitano persone molto povere, in condizioni che hanno dell’incredibile. Guardate la cañada, il problema igienico è gravissimo: nella fogna si scaricano feci e tutti il resto”.
Mi guardo intorno. Respiriamo la puzza della fogna. Come fanno a viverci?
Mi viene in mente il fiume nero che divide in due la favela di San Josè a Belo Horizonte, in Brasile: quando la vidi, mi colpì la presenza dei maiali e il lento scorrere dall’alto in basso dell’acqua fetente, una ruga maleodorante in una montagna di spazzatura e umanità ferita.
Qui l’acqua fetente attraversa un tratto pianeggiante girando intorno ad alberi che sarebbero bellissimi, e a tratti si apre in squarci di natura che chissà cos’era prima che la cambiassero.
Vedo un giovane al lavoro fra il fiume e il retro della sua casa, sta rinforzando un argine che le ultime piogge hanno indebolito.
Dice Juan Reyos: “Il pericolo di contaminazione è enorme, è stata la povertà a creare questa situazione. Non possiamo difenderci. Non so quanti siano gli abitanti, ma so che la maggior parte non ha di che mangiare e non lavora”.
Mi hanno detto che abitare qui sarebbe proibito.
“Non abbiamo un altro posto. Però abbiamo la speranza che le cose possano migliorare, che le autorità ci aiutino”.
Insisto: vi hanno promesso qualcosa?
La risposta è un capolavoro di educazione: “So che un gruppo di abitanti è andato al Municipio, ma non ho ancora avuto occasione di vedere qualche risultato”.