Le ragazze che sorridono. Le vecchiette che ti guardano. I bambini che ti saltano addosso. “Tíreme una foto, tíreme una foto”. Click. La tecnologia a volte facilita i rapporti umani: schiacci un tasto e compare la foto. Il bambino ride, si volta a cercare qualcuno che lo prenda in giro. “Tíreme una foto” . Un’altra. Arrivano altri bambini, una mamma, una zia, una nonna, qui si dice “abuela”. Gli uomini si scompongono un po’ meno, ma essere fotografati piace anche a loro.
Penso a come siamo ingessati noi. Vado avanti nel barrio, cerco le differenze, incontro emozioni impreviste: “Qui c’è un ragazzo con una grave infermità”, avverte suor Serafina nel suo italiano che non ha molto da invidiare al mio spagnolo: artigianale il suo, artigianale il mio. L’importante è capirsi. Guardo il ragazzo e mi accorgo di non aver capito: da noi starebbe al Cottolengo, qui è in mezzo agli altri. Giusto o sbagliato? Mi chiedo se fotografarlo oppure no. Giusto o sbagliato? Mi chiedo se provare a parlargli oppure no. Giusto o sbagliato? Penso alla distanza fra le mie troppe domande e la loro immediatezza. Non ne vengo a capo.
Alla fine lo fotografo con discrezione e provo a parlargli. Non mi risponde. Gli sorrido (l’ho visto sorridere: forse capisce). Qualcuno mi chiama, vado a vedere un bimbo piccolissimo, penso ad altro. Qualcuno mi chiama: “Tíreme una foto”. Click. Un’altra foto. L’emozione continua. Con un po’ di confusione. Come la tua, amico lettore dei miei pensieri sparsi.